giovedì 16 luglio 2009

SM 1848 -- Che cosa produrre ? -- 1995

Convegno: "Il giusto lavoro per un mondo giusto", Milano 8-9 luglio 1995
In: "Il giusto lavoro per un mondo giusto", Milano, Punto Rosso, n. 24, p. 137-145 (1996)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it


L'attuale crisi economica, di occupazione, anche morale, del nostro paese dipende in parte dall'aver perso la capacità, la comprensione, il gusto del lavoro e della produzione dei beni materiali. La borghesia ha ben compreso il potenziale eversivo della cultura del lavoro, della produzione, della classe lavoratrice, e dopo la crisi degli anni settanta del Novecento --- crisi di classe e crisi energetica e produttiva --- ha avuto buon gioco a inventare nuovi miti.

Il primo è stato il mito della società dell'immagine, reso possibile dall'uso massiccio della televisione. Più di recente il mito di una società virtuale ha diffuso l'impressione che non esista niente se non quello che viene elaborato e presentato sotto forma di immagine. Anzi che non si esista se non sotto forma di immagine, diffusa dalla televisione o dai grandi mezzi di comunicazione.
Strettamente connesso a questo primo mito è l'altro che non sia possibile fare niente se non abbinato ad uno sponsor, che mette non solo i soldi, ma anche la propria immagine e da questa "sponsorizzazione" si aspetta --- e ottiene --- un ritorno in soldi. Questa convinzione sta permeando tutte le attività, anche quelle buone e generose di volontariato, ecologiche, di aiuto agli altri, di istruzione. L'operazione condotta dal capitale è perfetta, e i cittadini sono così convinti che la difesa della natura, la solidariertà umana, l'aiuto sono possibili solo se abbinati ad una ditta farmaceutica o automobilistica o alimentare o di acqua "naturale" in bottiglia.

Il secondo mito consiste nella diffusione dell'idea che le società industriali avanzate siano delle società dematerializzate, cioè basate sulle immagini, sui servizi e sempre meno sugli oggetti fisici, sulle merci, sui manufatti.

I due miti combinati hanno svuotato la capacità umana di riconoscere e comprendere i beni materiali e l'importanza del fabbricare oggetti, del fabbricarli bene, dell'innovazione nella produzione. Le innovazioni della microelettronica sono state impiegate, più che come mezzi di liberazione umana, come mezzi (a parte gli impieghi più frivoli) per sostituire il lavoro umano fisico, l'abilità del lavoratore, generando falangi di disoccupati; l'allungamento della vita scolastica ha generato masse di diplomati che mal si adattano a lavori fisici e materiali.

Le presenti brevi considerazioni si propongono di contestare questi miti e di suggerire alcune nuove vie per lo sviluppo umano.


La nostra non è una società dematerializzata


Basta guardarsi intorno per vedere che, in una società industriale avanzata, la quantità di merci e materiali che passano dalla natura, al mondo della produzione, al mondo del "consumo" e che ben presto si trasformano in scorie e rifiuti rigettati nell'ambiente circostante, non solo non diminuisce, ma aumenta continuamente. Si pensi alla quantità di imballaggi inutili, di aggeggi inutili e alla progettazione delle merci e degli oggetti di breve durata, destinati ad essere sostituiti da nuovi oggetti, sotto la spinta di nuove mode, per comprendere come ogni persona sia investita da un continuo flusso di materiali e di energia e di scorie.

Solo per fare un breve conto, in Italia il flusso di materiali associato alle attività produttive e di consumo in un anno ammonta a circa 700 milioni di tonnellate (150 solo di combustibili fossili, 40 di cemento, per produrre il quale occorre movimentare una quantità ben più grande di materiali; decine di milioni di tonnellate di prodotti agricoli; centinaia di milioni di t/anno di sabbia e ghiaia per le costruzioni, eccetera).

Di questa massa di materia una parte resta immobilizzata, per tempi più o meno lunghi, dentro la tecnosfera --- l'universo degli oggetti fabbricati --- sotto forma di edifici, strade, macchinari, veicoli, eccetera; gran parte viene rigettata nell'ambiente per un peso di oltre 600 milioni di tonnellate: 100 milioni di t/anno di rifiuti solidi; 500 milioni di t/anno di rifiuti gassosi immessi nell'atmosfera.

Anche le attività apparentemente immateriali, i servizi forniti dai televisori, dai calcolatori elettronici, dalle reti elettriche, comportano un grande impiego di materiali --- rame, fibre di vetro, metalli, gomma, plastica, eccetera --- per produrre i quali vengono movimentate grandissime quantità di altri materiali. Si pensi che per produrre una tonnellata di rame occorre movimentarne oltre cento di minerale e roccia.

Non solo le società avanzate non sono immateriali, ma la domanda di materiali, fonti di energia, la domanda di corpi riceventi --- aria, acqua, suolo, mare --- in cui immettere le scorie, aumenta continuamente fino ad un punto in cui le riserve vanno esaurendosi e la capacità ricettiva dei corpi naturali va saturandosi. Da qui fenomeni come l'effetto serra, la distruzione dell'ozono stratosferico, l'eutrofizzazione dei mari e dei laghi, la congestione e l'inquinamento urbani, eccetera.

La cosa è destinata a farsi sempre più grave a mano a mano che gli abitanti del Sud del mondo --- quasi 5000 milioni di persone, oggi --- si avvicinano a quei consumi che oggi sono privilegio --- si fa per dire --- dei 1500 milioni di abitanti del Nord del mondo. Per conquistare materie prime scarse, spazi in cui scaricare i rifiuti, si andrà sempre più spesso incontro a guerre locali, al proliferare di attività criminali.

La liberazione da questa situazione presuppone una diffusione delle conoscenze su larga scala, a livello popolare, dei caratteri della produzione degli oggetti, delle merci, e del mondo della tecnosfera.


Quali merci ?


Diffusione ben difficile, perché il mondo imprenditoriale ha tutto l'interesse a non far conoscere nè che cosa produce, né come le merci sono prodotte, né quali effetti esse hanno sugli esseri umani e sull'ambiente. La scuola, lo strumento con cui lo stato è (sarebbe) tenuto a diffondere una cultura popolare, ha cercato di svuotare gli insegnamenti del loro contenuto materiale: si insegna la storia degli eroi, ma non delle tecniche e del lavoro e delle innovazioni. La chimica è insegnata poco e male e viene presentata come la lode dell'industria chimica, della plastica e dei prodotti sintetici. Della meccanica viene presentata la lode dell'automobile o del treno "pendolino" e l'industria finisce per progettare e costruire pessimi mezzi di trasporto collettivi, o dispositivi a durata sempre più breve. L'educazione tecnica che, bene o male, qualche conoscenza tecnica portava ai ragazzi delle scuole medie inferiori, è stata soppressa. La merceologia, una antica disciplina che offriva informazioni sulla produzione delle merci, sui loro caratteri, sulle frodi, è stata gradualmente espulsa dalle scuole e dalle Università. L'ecologia, che avrebbe potuto offrire informazioni sulla circolazione della materia e dell'energia nella biosfera e nella tecnosfera, oscilla fra la filosofia, le nozioni strettamente naturalistiche e la collaborazione col potere e le industrie.

La borghesia imprenditoriale crede che sollevare polvere e nebbia sul mondo della produzione e delle merci contribuisca a distrarre l'attenzione dei cittadini, a cui intende rivolgersi con l'incanto della pubblicità; la stessa sinistra non riesce a ricuperare quei valori del lavoro, della manifattura, dell'abilità che erano stati alla base delle virtù socialiste.

La salvezza dalla crisi va cercata in una svolta culturale lungo tre direzioni.

La prima presuppone che il mondo della produzione --- agricola, industriale, dei servizi --- cambi la sua maniera di ragionare e capisca che il futuro della sua intrapresa (forse della sua stessa sopravvivenza), in un libero mercato, non dipende dalle furbizie e dagli ammiccamenti e dalla pubblicità --- spesso così stupida da rasentare il ridicolo, che solo dei lettori e spettatori rincitrulliti possono non cogliere --- ma da una nuova maniera di comunicare con i consumatori e acquirenti. Solo così coloro che lavorano bene potranno spiegare quello che producono, come, dove, quali vincoli accettano nell'interesse dei valori collettivi.

A solo titolo di esempio, i lettori dei giornali vengono continuamente informati sulle fusioni finanziarie, sull'andamento della borsa e dei mercati, ma nessuno spiega che cosa ciascuna impresa produce, se la fusione fra società, oltre ad arrecare vantaggi monetari (ad alcuni) assicura migliori scarpe, o piastrelle, o automobili, o fa aumentare o diminuire i posti di lavoro e quali effetti ha sul territorio, dalla localizzazione delle fabbriche agli inquinamenti.

E' possibile immaginare che un giorno i quotidiani, i giornali popolari --- magari a cominciare da quelli di sinistra --- spieghino che la tale società fabbrica le scarpe o i trattori o i concimi in questo modo, e che ciò rappresenta un progresso rispetto al passato per questo certo motivo? Che venga spiegato ai cittadini che la tale fabbrica, che si delinea all'orizzonte con i suoi camini e magazzini, produce certe cose, che i camion o i vagoni fanno entrare le tali materie prime e fanno uscire le tali merci, che sui camini sono applicati (forse) dei filtri che funzionano in questo modo e che i gas che fuoriescono nell'atmosfera contengono certe sostanze ?

Mi sembra difficile che questa svolta si realizzi, proprio perché i dirigenti --- adesso li chiamano manager --- sono stati educati a ragionare in termini di soldi e hanno perso di vista che il fatturato e i profitti dipendono dalla qualità degli oggetti che fabbricano.


Una sfida per la sinistra


Ma ancora più preoccupante è il silenzio della sinistra su temi che sono stati alla base della sua nascita e della sua forza. Non vogliamo andare a rivangare le pagine di Marx, o quelle della rivoluzione bolscevica, o ricordare che quando Giuseppe Giugashvili si è dato un nome di battaglia ha scelto Stalin, dal nome dell'acciaio, il simbolo di una rivoluzione che avrebbe liberato, con le fabbriche, il proletariato russo dal sottosviluppo.

Le conoscenze tecniche hanno segnato la crescita del movimento socialista, il quale comprese che i lavoratori avrebbero potuto rivendicare con efficacia i propri diritti se avessero capito e conosciuto il ruolo del loro lavoro nel processo di produzione della ricchezza e del profitto. Chi fra i lettori meno giovani ricorda i giornali popolari socialisti e comunisti dopo la Liberazione --- si pensi, per esempio, al Calendario del popolo --- ricorderà anche lo spazio che veniva dedicato alle innovazioni, alle scoperte scientifiche, ai nuovi processi e alle nuove merci, spiegati con parole scientificamente corrette, ma comprensibili anche ai lettori meno istruiti.

Ma ancora in tempi più vicini a noi, nella breve primavera degli anni settanta del Novecento, quando il Partito comunista italiano si è fatto portatore di un progetto di cambiamento, anche in risposta alla domanda di nuovi diritti --- quelli degli studenti, delle donne, del movimento di contestazione ecologica, che chiedeva limitazioni e cambiamenti produttivi verso merci e processi meno inquinanti --- Enrico Berlinguer sottolineò con forza l'importanza della produzione e del suo controllo.

In un celebre articolo apparso su Rinascita del 24 agosto 1979 Berlinguer partì dal ricordo di un editoriale di Togliatti apparso nella stessa rivista nell'agosto 1946. Togliatti denunciava come i conservatori, già in quei primi anni della Repubblica antifascista, riproponessero e perseguissero "una politica di liberalismo ad oltranza, del tutto indifferenti alle sue pericolose conseguenze, del tutto ciechi al processo di putrefazione e di caos, che cominciava a manifestarsi nel paese per la chiara insufficienza della loro direzione economica; del tutto incapaci, quindi, di difendere seriamente i loro stessi interessi".

Partendo da queste parole di Togliatti, Berlinguer auspicava --- siamo alla fine degli anni settanta del Novecento --- un nuovo corso della vita economica italiana capace di "mettere in discussione il senso stesso dello sviluppo, o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre". E, poco dopo, auspicava un "intervento della classe operaia non solo sulla distribuzione del reddito, ma anche sulla forma e sulla qualità dei consumi e quindi sul processo stesso di accumulazione".

La nuova borghesia e la nuova destra hanno cattivo gioco nel dire che non esiste più una classe operaia, perche' essa esiste, eccome, e comprende nuove forme di lavoratori, che, oltre a governare un altoforno o una macchina tessile, governano più delicati processi e strumenti elettronici: gli uni e gli altri dipendenti, non in grado di influire sulla qualità di quello che producono --- merci e servizi --- in quanto la quantità e la qualità della produzione e del lavoro sono decise in centri lontani, spesso in paesi lontani, sulla base di criteri a breve termine, spesso miopi.

Lo sradicamento della borghesia conservatrice dai valori della produzione e degli oggetti finirà per travolgere gli stessi detentori del potere economico. A dire la verità il tracollo dei responsabili degli errori non ci turba: preoccupa invece noi oggi, come preoccupava erlinguer quindici anni fa, "che prevalgano l'ottusità del pragmatismo, le miserie del qualunquismo, i calcoli brevi dell'opportunismo: tutti portatori di acqua al mulino della disgregazione e dell'imbarbarimento del paese" --- e fonti di disoccupazione e dolori per le classi meno abbienti. Le parole erano rivolte alla democrazia cristiana dopo la morte di Moro ma sono del tutto attuali per i suoi attuali deformi nipotini.


Un nuovo orgoglio del lavoro


Il terzo punto necessario per una svolta nella direzione del giusto lavoro per un mondo giusto, presuppone la ripresa di una adeguata consapevolezza e orgoglio della classe operaia, le cui lotte appaiono, secondo l'immagine che ne distribuisce la borghesia padronale, appiattite su rivendicazioni egoistiche o corporative. Non si tratta solo di riconoscere il ruolo centrale del lavoro umano nella produzione degli oggetti e delle merci, ma di rivendicare con forza il contributo di innovazione e di progresso nato dalle lotte della classe operaia.

Qui vorrei ricordare soltanto il silenzio esistente e caduto sulle lotte operaie per quella che poi si è chiamata "ecologia". Nata come movimento essenzialmente borghese --- ma non erano "borghesi" anche coloro che hanno mobilitato i lavoratori per la riduzione dell'orario di lavoro, per l'organizzazione di cooperative e società operaie ? --- l'"ecologia" è poi cresciuta più come invito alla "conservazione" della natura che come analisi delle cause --- il capitalismo, la proprietà privata --- della distruzione delle risorse naturali da cui dipende la vita di ricchi e di poveri. Molti militanti "ecologisti", pur lodevolmente attivi nella pulizia dei boschi e nell'analisi delle acque marine, hanno finito addirittura per accusare la sinistra e gli operai di essere contro i cambiamenti, di impedire l'introduzione di processi e comportamenti meno inquinanti nel nome della "difesa" del posto di lavoro.

Questi atteggiamenti nascono dall'ignoranza di quanto i movimenti operai e socialisti e comunisti hanno fatto, nel corso già dell'Ottocento, ma ancora più nel Novecento, per ottenere migliori condizioni nelle fabbriche, cibi meno contaminati, acque meno inquinate. Mi pare che i lavoratori non abbiano un adeguato orgoglio nel rivendicare di essere stati loro, spesso, i primi a battersi per l'"ecologia", per migliori condizioni di lavoro, per una critica dei processi produttivi, per una critica, anche, della qualità delle merci prodotte. Vorrei solo citare le lunghe lotte condotte da Medicina Democratica, da Giulio Maccacaro, da Giovanni Berlinguer e da tanti altri; i dibattiti fra lavoratori all'interno delle fabbriche di armi. E' un peccato che non ci sia una storia sistematica di tali lotte operaie, di cui restano, purtroppo, soltanto sporadici frammenti.


Domani


E' difficile dire che cosa ci aspetta nei prossimi mesi e anni ma è necessario guardare ad un domani più lontano, gettare le fondamenta di un edificio in cui dovranno ricominciare a vivere i sopravvissuti della attuale crisi. Per gli abitanti di questo nuovo edificio, da costruire sulle macerie di una destra internazionale ormai priva di valori, di progetti, di creatività, occorre predisporre una nuova cultura che parta proprio dal mondo del lavoro, degli oggetti e della natura, che ricuperi il carattere unitario della grande circolazione di materia e di energia da cui dipende la vita nella biosfera, la risoluzione dei problemi umani nella tecnosfera.

Problemi e bisogni, nel Nord e nel Sud del mondo, prima di tutto di acqua, abitazioni, cibo, di diritto alla salute e all'informazione critica, alla conoscenza, premessa della libertà. Soddisfare i bisogni elementari di oltre seimila milioni di esseri umani, migliaia di milioni dei quali sotto il livello di sopravvivenza e di decenza, significa progettare, costruire, insegnare a costruire, abitazioni, macchinari, mezzi di trasporto, alimenti, utilizzando le risorse locali, insegnare ad utilizzare fonti di energia e materie prime sconosciute a noi abitanti del Nord del mondo.

Se riuscissimo a diffondere fra i lavoratori, i giovani, gli imprenditori, un messaggio di fiducia nel futuro, la richiesta di un controllo e di una pianificazione della qualità e della quantità delle merci prodotte, sotto nuovi vincoli di rispetto della salute umana e delle risorse naturali, metteremmo forse in moto un processo capace di sterminare la disoccupazione nei paesi sazi di consumi inutili e di indurre nei paesi poveri una svolta che eviti le guerre locali, le ingerenze degli imperi del Nord del mondo nella conquista e rapina delle loro materie prime. Il successo del nuovo corso di cui stiamo parlando presuppone anche una rivoluzione culturale, specialmente una revisione critica delle scale dei valori.

E la rivoluzione non può nascere altro che dal mondo del lavoro.

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