domenica 3 gennaio 2010

I nuovi giganti merceologici

La Gazzetta del Mezzogiorno, sabato 2 gennaio 2009

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Il Novecento è stato il secolo delle materie prime; nel 1973 nel giornale “The Economist” apparve un articolo intitolato: “Il potere alle merci”, in cui si sosteneva che, al di là del capitalismo e del comunismo, gli Stati Uniti e l’Unione sovietica costituivano il vero “primo mondo”, uniti come erano nel possesso di praticamente tutte le materie prime necessarie per la società tecnologica, in grado di esportare carbone, petrolio, acciaio, grano ad un secondo mondo di paesi industrializzati, come Europa e Giappone, poveri o privi di materie prime, e ad un terzo mondo di paesi arretrati, secondo e terzo mondo di fatto dipendenti dalle due grandi potenze imperiali. Credo che si possa adesso scrivere un altro articolo con lo stesso titolo: “Il potere alle merci” per descrivere un mondo diviso in un unico grande impero costituito da Cina e India, in possesso delle materie prime essenziali e in grado di produrre ed esportare merci, ma anche tecnologie tradizionali e anche tecnologie sofisticate come quelle dell’elettronica e dell’informatica, anch’esse dipendenti da materie prime di cui i due grandi paesi detengono enormi riserve.

Fin da quando ero studente, moltissimi anni fa, ogni anno mi è stato regalato, e poi mi sono regalato, il “Calendario Atlante De Agostini”, quello strano libretto rettangolare, lungo e stretto, con la copertina rossa, che contiene notizie sui diversi stati del mondo, sulla popolazione, l’economia, le capitali, le città principali e le bandiere. Nelle pagine iniziali sono contenuti preziosi dati statistici sulle principali produzioni merceologiche: quanto zucchero e patate, quanto acciaio e petrolio, sono prodotti dai diversi paesi in ciascun anno. Fino agli anni novanta del secolo scorso in tali statistiche primeggiavano gli Stati Uniti e l’Unione sovietica, grandi paesi che hanno ricevuto dal cielo ogni dono di natura: campi sterminati, grandi fiumi, foreste per fabbricare la carta e miniere per produrre carbone, minerali di ferro e uranio, pozzi da cui estrarre petrolio e gas naturale, linee ferroviarie che consentono di trasportare le merci ai porti da un oceano all’altro.

C’erano, a dire la verità, altri due giganti dormienti, l’India, ex colonia britannica, con centinaia di milioni di abitanti, di educazione e lingua inglese, con grandi università e centrali e bombe nucleari, e la Cina, altro sterminato paese, con centinaia di milioni di persone, di antichissima cultura, anche questo con università e industrie e centrali e bombe atomiche, ma considerato “arretrato”, “terzo mondo”, forse anche perché la sua grandissima popolazione parla una lingua strana e quasi inaccessibile al resto del mondo.

Col 1990 e lo smembramento dell’Unione sovietica e un lento declino dell’America, i due giganti dormienti hanno trovato le condizioni per svegliarsi. Sono andato a confrontare le produzioni di merci strategiche del 1988 e quelle di venti anni dopo, di Cina e India in confronto con quelle dell’impero nordamericano. Cominciamo dall’acciaio, il re delle merci, indispensabile per la fabbricazione di navi, trattori, autoveicoli, metanodotti, centrali elettriche; la produzione di acciaio degli Stati Uniti in 20 anni è passata da 800 a 1000 milioni di tonnellate all’anno; quella della Cina da poco più di 1000 a 2800, quella dell’India, da 200 a 500, sempre milioni di tonnellate all’anno. La produzione di acciaio si trascina dietro quella dell’elettricità, passata negli Stati Uniti, in venti anni, da 3000 a 4000 milioni di chilowattore all’anno, in Cina da 600 a quasi 3000, quella indiana da 250 a 700, sempre milioni di chilowattora all’anno. Acciaio e elettricità si trascinano dietro, a loro volta, la richiesta di carbone, passata negli Stati Uniti da 800 a 1000 milioni di tonnellate all’anno, nella Cina da poco più di 1000 a 2800 milioni di tonnellate, quella dell’India da 200 a 500 milioni di tonnellate all’anno.

Non voglio annoiare ulteriormente i lettori che potranno soddisfare altre curiosità geografico-merceologiche “interrogando” Internet. La conclusione è più o meno sempre la stessa, mentre la produzione delle merci e materie indispensabili per lo sviluppo economico (quelle citate e cemento, acido solforico, materie plastiche, eccetera) è rimasta quasi costante o è aumentata di poco, negli ultimi due decenni, in Europa e negli Stati Uniti, che appaiono così giganti stanchi e invecchiati, le stesse produzioni sono aumentate febbrilmente raddoppiate o triplicate nei due nuovi giganti asiatici che con l’agricoltura, le miniere, le fabbriche sono diventati tanto potenti che l’Occidente, quasi spaventato, li ha accomunati nell’acronimo “Cindia”, due miliardi e mezzo di persone. A questa crescita frenetica imputiamo il pesante inquinamento planetario, ma dobbiamo anche constatare che in Cina stanno perfezionando tecniche di depurazione e impianti eolici e solari in cui credevamo di essere all’avanguardia.

Non fa meraviglia che i nostri negozi e mercati siano pieni non solo di straccetti a basso prezzo di importazione cinese, ma che ormai arrivino dalla Cina anche strumenti elettronici molto sofisticati e avanzati e che l’India esporti, in forma meno visibile ma altrettanto invadente, tecniche e procedure e servizi informatici. Ed è questione non solo, come spesso viene detto, di mano d’opera a basso prezzo, ma di centinaia di milioni di persone che hanno una istruzione generale e universitaria di alto livello e un orgoglio del proprio passato, il che induce a modesto suggerimento: invece di inventare lauree universitarie di cucina, moda, estetica, non sarebbe il caso di moltiplicare corsi di lingue e di cultura dei paesi orientali da cui, bene o male, dovremo sempre più dipendere e imparare in futuro ? Non potrebbe partire questa svolta proprio da Bari che era la porta per l’Oriente ?

Nessun commento:

Posta un commento