sabato 4 dicembre 2010

Poggio: I paradossi dell'immigrazione

Pier Paolo Poggio
Brescia, 29 novembre 2010

Tutti gli indicatori oggettivi di carattere sociale ed economico ci dicono che l’immigrazione è stata una manna per l’Italia e gli italiani. Questi ultimi però, nella loro grande maggioranza, pensano che sia una disgrazia, una sorta di catastrofe naturale, se non un complotto politico, che si deve affrontare in termini di sicurezza nazionale. La distanza abissale tra la realtà e la rappresentazione è la fonte principale dei nostri guai.

Il caso italiano non è assolutamente isolato ma presenta una serie di peculiarità: nel lungo periodo la penisola è stata teatro di innumerevoli mescolamenti di popolazioni però durante tutto il ciclo dell’industrializzazione è stata piuttosto un Paese di forte emigrazione verso l’estero o di migrazioni interne.L’immigrazione, specie dai Paesi extraeuropei, ha rappresentato quindi un fenomeno molto più recente rispetto al resto dell’Europa occidentale, poi accentuato dall’improvviso e imprevisto crollo del campo sovietico. È avvenuto così che le forze politiche si siano presentate ad un appuntamento cruciale per la nostra storia del tutto impreparate, senza alcuna elaborazione né politica né culturale, a rimorchio delle necessità dell’economia e dei pregiudizi della gente, alimentati dai media.

Un’azione efficace è stata svolta quasi solo dal volontariato, specie di matrice cattolica, ovvero direttamente dalle strutture periferiche della Chiesa. Il che però, a livello di opinione pubblica, ha rafforzato l’idea che l’immigrazione fosse principalmente un problema di assistenza sociale, di risorse che la società doveva indirizzare a sostegno delle situazioni di degrado, di miseria materiale e morale, che il sistema della comunicazione televisiva continuamente documentava.

Si è così prodotta una micidiale e apparentemente insanabile distorsione cognitiva tra ciò che l’immigrazione è stata ed è per la società e l’economia e la percezione diffusa che ne hanno gli italiani, dominata dal sentimento della paura.

Non è possibile elencare tutti i settori per i quali l’immigrazione, databile dagli anni Ottanta e sviluppatasi soprattutto negli ultimi due decenni, ha rappresentato una risorsa decisiva. Esistono in merito ricerche ben documentate, anche se permane, a livello di conoscenza interna delle varie comunità di immigrati, uno scarto tra la rilevanza eccezionale del fenomeno e l’attenzione che gli è stata dedicata dagli studi sociali, culturali, etno-antropologici.

In primo luogo gli immigrati hanno consentito di bloccare e invertire il trend demografico rapidamente declinante dell’Italia. Il loro lavoro ha semplicemente salvato l’agricoltura italiana, tanto al Nord quanto al Sud. Lo stesso vale per i principali settori manifatturieri. Altro che ricacciarli a casa loro: è solo per la presenza di abbondante manodopera immigrata che le aziende italiane non sono emigrate all’estero più di quanto non abbiano fatto. Il ruolo degli immigrati, soprattutto donne, nei servizi alla persona viene riconosciuto anche dai più accesi fautori della lotta contro l’immigrazione clandestina – e quale altrimenti visto le leggi esistenti? – . Da cui il trattamento privilegiato riservato alle “badanti”.

In realtà gli immigrati sono cruciali in molti altri settori, da quello sanitario, a quello edile, a quello del commercio, dove la desertificazione di interi quartieri per la prevalenza della grande distribuzione è stata frenata dal moltiplicarsi di piccoli esercizi “etnici”. Cosa ancor più significativa: l’intero sistema del welfare ottiene dagli immigrati molto di più di quanto dia loro (tendenzialmente sempre meno se non nulla).

Secondo alcuni gli immigrati possono aver svolto un ruolo positivo in passato ma adesso, con la crisi economica, rappresentano solo un problema, di cui liberarsi. Questo ragionamento è privo di fondamento, sia perché neppure il più totalitario degli Stati sarebbe in grado e troverebbe conveniente di liberarsi di 5 milioni di persone fondamentali per la propria economia, sia perché gli immigrati hanno funzionato da ammortizzatori umani della crisi, assorbendone i colpi peggiori. Per la condizione in cui si trovano molti di loro è prevalsa la funzione di pura forza-lavoro, priva di ogni diritto e quindi spendibile o liquidabile a seconda delle esigenze; qualcosa di diverso da un esercito industriale di riserva da usare concorrenzialmente contro la manodopera locale.

Ma, allora, da dove deriva l’ostilità degli italiani, divisi in tutto ma accomunati dalla paura per gli extracomunitari (che intendono in una accezione molto più vasta di quella tecnico-giuridica)? Una risposta non superficiale non è facile, né si può far ricorso ad un concetto generico di razzismo, dando vita ad un ulteriore paradosso: gli italiani considerati sino a poco tempo addietro immuni dal razzismo sarebbero di colpo diventati quasi tutti razzisti. Sul piano storico la prima affermazione non è vera ma non lo è nemmeno la seconda, pur in presenza dell’ostilità generalizzata e crescente di cui si è detto.

La questione è ulteriormente complicata dalla posizione di quasi tutte le forze politiche. Esse si sono fatte trovare del tutto impreparate, però hanno le loro matrici in orientamenti universalistici o nazionalistici inclusivi e quindi non possono o non vogliono spostarsi su un terreno xenofobo. Possono con più o meno convinzione adottare provvedimenti per frenare la marea dell’immigrazione, da cui gli Italiani temono di essere sommersi, ma debbono farlo in un linguaggio politicamente corretto, lontano dalle pulsioni profonde che animano la società. Quanto alla Chiesa, pur in presenza di due pontefici sostanzialmente conservatori, si può dire che abbia con coerenza criticato le politiche di contrasto troppo dure dell’immigrazione, senza molto convincere i propri fedeli.

In un tale contesto, un attore politico come la Lega Nord, da tempo al centro dell’attenzione senza aver conseguito i risultati clamorosi che prometteva ai suoi seguaci, ha avuto davanti a sé una grande prateria in cui pascolare liberamente. Quello che è ad un tempo il più recente e il più longevo dei partiti italiani, si richiama alla nobilissima tradizione del federalismo, mettendo assieme con spregiudicatezza post-moderna Gianfranco Miglio e Gaetano Salvemini.

É accreditato dalla stampa di pratiche di buon governo e di rappresentare un baluardo contro l’avanzare della criminalità organizzata (in cammino dal Sud verso il Nord). Però la specialità della Lega è innegabilmente la lotta contro l’immigrazione, di qualsiasi genere, dal Meridione, dall’Africa e Asia, dall’Est Europa. In quanto detentore quasi monopolistico, a livello politico, della passione principale degli Italiani, si è insediata al centro della scena politica, venendo corteggiata un po’ da tutti gli schieramenti.

Scambiando l’effetto per la causa, c’è chi arriva a pensare che sia merito o colpa della Lega l’aver posto la questione dell’immigrazione al primo posto dell’agenda politica, nel senso che più di ogni altro tema è in grado di spostare frazioni consistenti di voti. Purtroppo la Lega non rappresenta né la causa né la soluzione del problema da cui siamo partiti, vale a dire la situazione di ostilità, paura, smarrimento di vaste fasce della popolazione italiana di fronte all’arrivo in tempi brevi del popolo dei migranti. La Lega fa il suo mestiere e contribuisce ad alimentare o concimare il terreno da cui trae linfa.

Senza la pretesa di circoscrivere in poche battute un fenomeno dirompente, ci pare di poter dire che molte difficoltà derivino dalla ricordata impreparazione della classe politica, a cui è da affiancare il ben scarso apporto delle forze intellettuali. A sua volta tale inadeguatezza, così come le paure delle persone comuni, rimandano a ciò che sta alla base dell’immigrazione, vale a dire all’immenso movimento delle moltitudini messesi in cammino nell’era della globalizzazione, con la fine del comunismo e gli esiti non meno imprevisti (vedi Cina e India) della decolonizzazione.

In definitiva, la paura dell’immigrazione manifesta l’incapacità di fare i conti con il mondo nuovo in cui siamo entrati avendo la testa nel passato, pretendendo anche di camminare all’indietro, sognando cose che non ci sono più o che non ci sono mai state e pretendendo che gli altri condividano il nostro antiquato immaginario.

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