lunedì 29 agosto 2011

Se dipendesse da me

Quale Stato, 10, (2/2005), 113-122 (Aprile-giugno 2005)
http://www.unimondo.org/Notizie/Se-dipendesse-da-me-di-Giorgio-Nebbia

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

L'acqua è un bene collettivo; anzi è un bene pubblico; o meglio è un bene comune; l'acqua non è una merce; anzi l'acqua non è neanche un bene economico. L'ha scritto Adamo Smith nel IV capitolo del I libro delle "Ricerche sopra la natura e le cause delle ricchezze delle nazioni" (1776): "Nulla è più utile dell'acqua, ma difficilmente essa serve ad acquistare qualche cosa, perché nulla o quasi si può ottenere in cambio dell'acqua". Ha detto sostanzialmente le stesse cose David Ricardo nel II capitolo dei suoi "Principi dell'economia politica" (1817): "In base ai principi comuni della domanda e dell'offerta nulla può essere dato per l'uso dell'aria e dell'acqua o di quale si sia altro dono della natura, di cui esiste una quantità illimitata. Il fabbricante di birra, il distillatore, il tintore, per la produzione delle loro merci fanno uso incessante d'aria e d'acqua, ma queste non hanno prezzo perché illimitata ne è la provvista".

Ma di che cosa stiamo parlando ? L'acqua come acca-due-o è tutta intorno a noi e ce n'è tantissima (ma non si può certo dire che "illimitata ne è la provvista"): di acqua ci sono 1,4 miliardi di miliardi di tonnellate negli oceani; 30 milioni di miliardi di tonnellate immobilizzati allo stato solido nei ghiacci; qualche milione di miliardi di tonnellate nelle falde idriche sotterranee poco profonde; circa 120 mila miliardi di tonnellate nei laghi e fiumi; circa 13 mila miliardi di tonnellate come vapore nell'atmosfera.

Ma l'unica acqua che serve veramente a qualcosa a fini umani è rappresentata da un modesto 40.000 miliardi di tonnellate, quelle che, grazie al ciclo di evaporazioni e condensazioni provocate dall'energia solare, scorrono ogni anno sulla superficie delle terre emerse.

Però i numeri assoluti non dicono niente perché, per ragioni storico-geologiche, l'acqua è di diversissima qualità da luogo a luogo. L'acqua dei mari e degli oceani è una soluzione molto salina che non serve praticamente a niente: serve appena un poco per il raffreddamento di alcuni impianti industriali costieri (ma è sgradevolissima perché è corrosiva e provoca incrostazioni); serve in maniera irrisoria per l'irrigazione di alcune piante costiere che sopportano il contatto con acqua marina.

L'acqua solida dei ghiacciai è tanta, ma come tale non serve a niente e la lasciamo lì dov'è. Tutte le masse di acqua restanti sono diverse, spesso diversissime, da un luogo all'altro; la principale caratteristica ecologica --- ma direi "merceologica" perché ne condizioni l'utilità a fini umani, il "valore d'uso" --- è la salinità che può oscillare fra pochissimi milligrammi e alcuni grammi di sali totali per litro.

L'acqua "serve" a innumerevoli fini di vita: il vapore acqueo dell'atmosfera contribuisce a "fabbricare" per fotosintesi, combinandosi con l'anidride carbonica pure atmosferica, la biomassa vegetale. Per la fotosintesi di 100 chili di biomassa vegetale secca occorrono circa 60 chili di acqua; sui continenti più o meno 30 o 40 miliardi di tonnellate di acqua atmosferica ogni anno vengono incorporati, per fotosintesi, in circa 100 miliardi di tonnellate di biomassa vegetale; ma, tranquilli: la stessa massa di acqua circola dai vegetali agli animali e da questi ritorna all'atmosfera, con i gas della respirazione e della putrefazione.

Non solo: la biomassa vegetale e quella animale svolgono le loro funzioni vitali soltanto se contengono, incorporata al loro interno, acqua che viene tratta dal suolo o che deve essere apportata attraverso le catene trofiche. Le patate e i frutti contengono il 90 % di acqua; i cereali ne contengono il 10 o 15 %; il corpo degli animali, umani compresi, contiene circa il 50 % di acqua. E tutta l'acqua, alla fine di ogni processo, ritorna da dove è venuta.

In questo gigantesco palcoscenico del dramma della vita gli umani contano ben poco, ma è di loro che dobbiamo pure occuparci. Gli umani --- oggi, nel 2005, circa 6,3 miliardi di persone --- usano l'acqua per irrigare i campi al fine di aumentare la produzione agricola commerciale: nessuno sa esattamente quanta acqua viene usata a questo fine perché nei paesi arretrati viene sollevata un po' di acqua dai pozzi locali; nei paesi industriali l'acqua viene trasportata da un posto all'altro talvolta con giganteschi impianti. Come ordine di grandezza si può stimare che l'acqua impiegata per l'irrigazione si aggiri nel mondo intorno a 2.000 miliardi di tonnellate all'anno. Comunque l'acqua per l'irrigazione di ciascuna coltura deve avere caratteristiche saline ben definite; alcune coltivazioni sopportano acqua con un contenuto salino di due o tre grammi di sali per litro, altre richiedono acqua "dolce", con basso contenuto salino.

Gli umani usano l'acqua per produrre le merci: qualsiasi processo usa delle materie prime --- minerali, combustibili, prodotti agricoli e forestali e animali, pietre, eccetera --- e le trasforma in merci impiegando lavoro, energia, e acqua la quale è un vero e proprio fattore della produzione. Tanto che è possibile e utile (anche se difficile) calcolare il "costo in acqua" delle merci, valutato come chili di acqua per unità di merce o di servizio: per costruire una automobile, un calcolatore elettronico, un chilo di pane, per fare una doccia, eccetera.

Anche in questo caso ciascun processo produttivo e servizio richiede acqua con qualità merceologiche ben definite; per alcuni processi si può usare acqua anche leggermente salina, per certi servizi (l'acqua per il ferro da stiro a vapore o per il raffreddamento dei motori) occorre acqua "distillata", praticamente priva di sali. I processi industriali e le attività commerciali assorbono, si stima, nel mondo, fra 100 e 300 miliardi di tonnellate all'anno

Infine c'è l'uso più importante e irrinunciabile, quello dell'acqua per le attività personali e domestiche; l'indispensabile acqua per bere e per la cottura e digestione dei cibi si può stimare in circa una-due tonnellate all'anno per persona, e questa è più o meno una costante universale per ricchi e poveri e richiede acqua con un contenuto salino che non deve superare circa un grammo di sali per litro.

Adesso comincia la discriminazione di classe; gli abitanti dei paesi ricchi usano acqua per fare il bagno, per lavare i piatti e i panni, per annaffiare le piante sul terrazzo, per lavare l'automobile, per eliminare gli escrementi e i rifiuti del cibo o del lavaggio attraverso i gabinetti e le fogne, e questo insieme di servizi comporta un uso dell'acqua che si può stimare di circa 50-150 tonnellate all'anno per persona, con un totale mondiale fra 50 e 100 miliardi di tonnellate all'anno.

A titolo di paragone, in Italia, con 58 milioni di abitanti, il flusso di acqua attraverso il territorio nazionale è di 150.000 milioni di tonnellate all'anno e i "consumi" sono, rispettivamente, in milioni di tonnellate all'anno, circa 30-40 mila per l'agricoltura, circa 5-10 mila per l'industria e circa 5-10 mila per usi domestici e urbani. Il "circa" è d'obbligo perché le reti di distribuzione hanno perdite e dispersioni e le statistiche attendibili sono molto carenti. Sempre come ordine di grandezza in Italia circa 11 milioni di tonnellate all'anno di acqua sono vendute in bottiglie.

Prima di arrivare al nocciolo della questione, alle domande iniziali, devo far rapidamente notare che tutti gli usi umani --- irrigazione, produzione di merci, usi domestici --- sporcano l'acqua usata e la restituiscono nei corpi idrici da cui l'hanno prelevata, più o meno nella stessa quantità, ma dopo avervi aggiunto sostanze estranee varie, tali, talvolta, da rendere l'acqua usata inutilizzabile e tali addirittura da sporcare i corpi idrici naturali in cui l'acqua usata ritorna. Per cui l'acqua di un fiume, nel quale sono state immesse le fogne di una città o le acque reflue di una fabbrica, per un bel po' di spazio e di tempo ha una composizione che la rende inadatta per bere, irrigare i campi, eccetera. L'acqua è una risorsa naturale continuamente rinnovata dal ciclo naturale dell'acqua, ma "la sua provvista", con buona pace di Ricardo, non è "illimitata", ma "limitata" e la sua qualità peggiora sempre in seguito all'uso umano.

Ogni persona che usa l'acqua --- nei campi, nelle fabbriche, nelle abitazioni --- la prende da un fiume o lago o pozzo vicino o è rifornito da qualcuno che gliela porta a casa. Partiamo da questo ultimo caso. Coloro che "gli portano l'acqua a casa" sono imprese che vanno a cercare l'acqua dove è disponibile, la sollevano dai fiumi o dai pozzi, la trattano con processi che assicurino uno standard di salinità e di purezza fissato da norme internazionali per la tutela della salute, poi stendono delle tubazioni di distribuzione e poi di sollevamento e alla fine l'acqua arriva al rubinetto di casa. Pur con alcune varianti relative alla quantità dell'acqua, questa situazione è uguale, praticamente, per le abitazioni di Milano o Amburgo o New York, ma anche per molte case isolate delle valli alpine o delle isole. Chi (chiunque sia) fa tutte queste operazioni spende dei soldi e li vuole riavere indietro chiedendo all'utente un prezzo o una tariffa, vendendo, insomma, l'acqua in cambio di soldi. Dire quindi che l'acqua non è una merce è in assoluto, a mio modesto parere, una ingenuità.

A questo punto sorgono due problemi. Il primo riguarda quanto "chi" distribuisce l'acqua spende per farla arrivare nelle case e quanto vuole indietro come prezzo. Sono nato in una città attraversata da un flusso continuo di acqua (peraltro non potabile) e immagino che l'azienda che mi portava l'acqua a casa (sia pure depurandola) spendesse poco (e mi facesse pagare un modesto prezzo); ho poi passato la vita in una città nella quale l'acqua arrivava attraverso condotte lunghe centinaia di chilometri e doveva essere filtrata e depurata per raggiungere gli standard di potabilità, il che faceva sì che il prezzo che il venditore di acqua voleva indietro per rimborsarsi di queste operazioni fosse elevato (a meno che non fossero lo stato, cioè tutti gli altri cittadini, a pagare una quota dei costi per non far pagare l'acqua troppo cara a me).

In ogni caso l'acqua venduta ai cittadini è un bene costoso anche perché alcune zone di ciascun paese sono ricche di acqua di buona qualità e altre hanno poca acqua a disposizione. Nelle isole minori italiane l'acqua addirittura deve essere portata con navi cisterne, in altre deve essere ricavata dal mare per dissalazione con costosi impianti. Se dipendesse da me, direi che l'acqua, in quanto bene essenziale e irrinunciabile, dovrebbe avere lo stesso prezzo in qualsiasi parte del paese, a Trento come a Pantelleria. Non credo che sia una idea tanto assurda. Anche altri beni essenziali, che pure sono prodotti da imprese industriali, come l'elettricità ma anche la benzina, hanno praticamente lo stesso prezzo a Trento e a Pantelleria.

Non ho bisogno di ricordare che, quando fu nazionalizzata l'energia elettrica e fu creato un unico ente che produceva e vendeva l'elettricità, un bene che era prodotto con diversi costi nelle diverse centrali, a seconda del combustibile usato e della località, fu stabilito che l'ente nazionale doveva vendere la merce-elettricità allo stesso prezzo a Trento o a Pantelleria. Se una centrale produceva a costi più bassi del ricavato dalla vendita, il maggiore guadagno finiva in una cassa conguaglio da cui venivano presi i soldi per compensare il minore ricavato, la differenza fra i maggiori costi dell'elettricità prodotta e distribuita nei luoghi disagiati rispetto al ricavato, dalla vendita dello stesso bene al prezzo "nazionale". Se questo riguardava una merce che era essenziale, ma che comunque veniva prodotta industrialmente, io dico che lo stesso criterio, a maggior ragione, dovrebbe valere per l'acqua che è tratta dalle riserve dei fiumi, dei laghi, delle sorgenti e del sottosuolo che davvero non hanno un padrone al di fuori della natura, cioè della collettività nazionale.

Se parlo in termini di giustizia --- un uguale prezzo per l'acqua in tutta Italia --- mi rendo anche conto che esiste una gerarchia nel "valore d'uso" dell'acqua. La frazione destinata ad usi potabili e igienici deve avere per legge una alta qualità merceologica (limiti al contenuto di sali, al contenuto di sostanze estranee e inquinanti) e costa molto ottenerla; trovo immorale che tale acqua di alta qualità venga usata per lavare i gabinetti, per annaffiare le piante sulle terrazze e per lavare le automobili.

Se dipendesse da me stabilirei che chi vende l'acqua dovrebbe prevedere delle tariffe differenziate in modo da scoraggiare l'uso eccessivo di acqua, o l'uso di acqua di alta qualità per fini non alimentari o igienici, che potrebbero essere soddisfatti con acqua di qualità inferiore, per esempio con acqua usata depurata.

A questo punto si arriva al secondo aspetto del problema. Chi provvede a distribuire e vendere l'acqua e a regolare le tariffe ? Non l'hanno mai fatto le aziende acquedottistiche municipali, "pubbliche", che hanno sempre fatto ciascuna la propria politica di costi e prezzi. Gli alti costi di produzione venivano compensati con contributi statali che sanavano i bilanci delle imprese, ma non hanno influito sull'equità del prezzo o sulle tariffe.

Quando "finalmente" ci siamo liberati delle incrostazioni dell'intervento dello stato e del "pubblico" si è deciso che le aziende di acquedotti dovessero essere razionalizzate, accorpate e gradualmente rese private perché, secondo alcuni, è il mercato che regola l'efficienza aziendale. Ma il mercato non si impiccia, "non deve" impicciarsi, di giustizia e di contenimento degli sprechi e di razionalizzazione dei consumi, tanto che la situazione dell'approvvigionamento idrico è andata peggiorando e ancor più peggiorerà: meno acqua di buona qualità e prezzi più elevati per le zone più aride d'Italia.

La transizione verso la privatizzazione è stata incoraggiata dalle norme europee --- che adottiamo diligentemente quando giovano al potere economico e finanziario --- ed è stata attuata in Italia con la, per me sciagurata, "legge Galli", o legge 36, pur votata anche da gran parte della sinistra, la quale divide il territorio nazionale in "ambiti territoriali ottimali", ai fini del prelevamento dell'acqua dalle fonti idriche nazionali, e stabilisce che, nell'ambito di ciascun ATO, le imprese di distribuzione possono essere anche privatizzate, senza alcun controllo pubblico sulle tariffe e sulla politica dei consumi. Nell'articolo uno la "legge 36" giustamente ricorda che "tutte le acque, superficiali e sotterranee, anche se non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da utilizzare secondo criteri di solidarietà; qualsiasi utilizzo delle acque deve essere effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un patrimonio ambientale integro, e gli usi delle acque devono comunque essere sono indirizzati al risparmio e al rinnovo delle risorse, per non pregiudicare il patrimonio idrico, la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrologici".

Tutte belle parole, vanificate però all'atto pratico, dalle successive norme della stessa legge che stabiliscono che il prezzo a cui l'acqua viene venduta da una azienda acquedottistica deve coprire i costi di produzione e distribuzione, costi che ovviamente sono minori dove l'acqua è pura e abbondante (e dove potrà essere vendute a minore prezzo), rispetto alle zone dove l'acqua è poca e deve essere trasportata da grande distanza e deve essere depurata --- e dove pertanto dovrà essere venduta a prezzo maggiore.

Nella "legge 36" vi sono anche altre contraddizioni rispetto ad una precedente legge, la "centottantatre" del 1989, che aveva stabilito che le vere unità di programmazione e pianificazione dell'uso delle acque e di difesa del suolo sono i bacini idrografici, nuove unità politico-amministrative che superano (avrebbero dovuto superare) i confini amministrativi delle regioni, province, comuni, comunità montane --- e anche gli ATO che stanno a cuore ai venditori di acqua.

Per farla breve, se dipendesse da me, predisporrei un ente nazionale delle acque che dovrebbe avere come fine il coordinamento delle imprese --- aziende e, per le acque da irrigazione, consorzi di bonifica e altre --- al fine di assicurare acqua allo stesso prezzo a utenti, domestici, industriali e agricoli, in tutta Italia, acqua in quantità sufficiente per gli usi primari essenziali, un ente capace di orientare gli usi in modo da contenere gli sprechi alla luce della scarsità attuale e futura, e del peggioramento della qualità, delle riserve idriche nazionali.

Una tale politica delle acque, con minimo aggravio per gli acquirenti oggi privilegiati, con vantaggio per gli acquirenti oggi svantaggiati, metterebbe a disposizione dell'"ente" una massa di denaro sufficiente per pagarsi i costi di gestione e forse per dare un po' di soldi allo stesso stato per la costruzione e la manutenzione dei sistemi di distribuzione e depurazione.

Le precedenti considerazioni sono riferite in particolare ai problemi di vendita e acquisto, cioè di commercio, dell'acqua per usi domestici e in parte industriali. Con una aggiunta. Un secolo fa qualcuno ha scoperto che effettivamente alcune acque naturali avevano (sembravano avere) effetti biologici positivi, soprattutto per la loro particolare composizione di sali inorganici, minerali, disciolti. E' stato così stabilito che in alcune zone i comuni o lo stato potessero autorizzare l'imbottigliamento di tali acque benefiche in modo da renderne possibile l'uso anche ai cittadini che abitavano lontano dalle zone in cui tali acque sgorgavano. C'è una vasta letteratura italiana sulla qualità, composizione e sulle virtù (vere o millantate) di alcune acque "minerali". Con varie speculazioni: medici e cattedratici compiacenti erano disposti a dichiarare che la tale o la talaltra acqua aveva il tale effetto medicamentoso, in modo che alcune imprese potevano ottenere la concessione dell'uso delle acque di tale sorgente e potessero mettere tale acqua in bottiglia vendendola ad un prezzo che in genere era di circa cento o più volte superiore a quello dell'acqua del rubinetto.

Sotto una forte spinta speculativa, nel corso dei decenni, le acque "minerali" si sono moltiplicate con la compiacenza e il silenzio delle autorità pubbliche. E così grandi quantità --- circa 11 milioni di tonnellate all'anno, come ho ricordato prima --- di acqua vengono poste in bottiglie di vetro o plastica da un litro o un litro e mezzo, che affollano le autostrade italiane (acque delle valli alpine vendute in Puglia e acque della Basilicata vendute a Chivasso), accompagnate da una spesso ridicola pubblicità. A volta a volta viene inventata l'idea che le acque oligominerali, con minime concentrazione salina, sono "leggere" e fanno bene (senza contare che le acque oligominerali sono povere di sali di calcio, che sono invece indispensabili per adulti e bambini; ma ecco che l'integrazione della dieta con sali di calcio è ottenuta con opportune pasticche e così si specula sulle acque in bottiglie e si specula sugli integratori).

Poi viene diffusa la leggenda metropolitana che l'acqua del rubinetto è cattiva, "sa di cloro", e allora quale madre o padre vorrà mai rischiare di avvelenare i propri figlioletti dandogli da bere l'acqua del rubinetto per risparmiare sulle provvidenziali acque in bottiglia ? In questo modo le famiglie italiane, soprattutto quelle culturalmente più fragili, pagano ogni anno una imposta di circa otto o dieci miliardi di euro a chi tiene in moto la speculazione delle acque in bottiglia, che comporta spreco di energia per il trasporto delle bottiglie di acqua attraverso l'Italia, per lo spreco di bottiglie di vetro e di plastica che alimentano l'altra speculazione sullo smaltimento dei rifiuti.

Se dipendesse da me, un governo a cui stesse a cuore l'economia delle famiglie eserciterebbe un severo freno sulle concessioni e il commercio delle acque in bottiglie, acqua che potrebbe benissimo essere avviati negli acquedotti urbani e avrebbe lo stesso effetto biologico.

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