martedì 26 giugno 2012

Rio+20

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 26 giugno 2012

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Le diecine di migliaia, per la maggior gloria del turismo brasiliano, di persone che si sono riunite a Rio de Janeiro la settimana scorsa in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite “Rio+20. Lo sviluppo sostenibile”, hanno ormai fatto le valige e sono tornate a casa. Erano presidenti, ministri, sottosegretari, funzionari, consulenti dei governi e delle grandi potenze economiche, finanziarie e industriali, i lobbysti, e poi rappresentanti delle innumerevoli associazioni internazionali e nazionali che hanno organizzato contro-conferenze.

La conferenza ufficiale si è svolta a venti anni di distanza da un’altra che si era tenuta ugualmente nella grande città brasiliana e che era intitolata “Ambiente e sviluppo”. In realtà tutto era cominciato ancora venti anni prima, nel 1972, a Stoccolma con la prima grande conferenza dell’”età ecologica”, intitolata “L’ambiente umano. Una sola terra”. A quella prima conferenza delle Nazioni Unite, nel 1972, partecipavano per la prima volta paesi che uscivano dalla lunga notte di secoli di colonialismo e che chiedevano un ambiente e una economia rispettosi del loro diritto ad usare le proprie risorse naturali, forestali, minerarie, energetiche, per il proprio sviluppo ”umano”, per l’appunto, nel rispetto dell’ambiente naturale che rappresenta la vera comune casa degli uomini.

La Conferenza di Stoccolma si concluse con una dichiarazione abbastanza profetica che chiedeva ai paesi industrializzati di regolare le proprie economie e i propri consumi in modo da diminuire i già devastanti inquinamenti, e nel rispetto dei diritti dei paesi emergenti; per dirla in altre parole i soldi provenienti dalla vendita di rame (nel Cile), petrolio (in Libia e Iran), foreste, prodotti agricoli, cobalto (nel Congo), fosfati (in Tunisia), gomma (in Indovina), fino allora serviti ad arricchire i paesi ricchi, avrebbero dovuto restare nei paesi da cui tali ricchezze naturali provenivano.

Figurarsi ! Negli anni settanta e ottanta si ebbero colpi di stato e guerre locali intorno al dominio di quelle stesse materie prime e addirittura fu elaborata, nel 1987, la teoria dello sviluppo sostenibile, secondo cui l’ambiente va bene ma a condizione che continui la cresciuta economica e prosperino gli affari. La prima conferenza di Rio de Janeiro, nel 1992, era infatti intitolata “Ambiente e sviluppo” (dell’uomo non si parlava più). Nei due decenni successivi si sono aggravati i problemi ambientali: un aumento dello sfruttamento delle risorse naturali, anche in conseguenza della comparsa di nuovi giganti economici, come l’India e la Cina, affamati di energia, metalli, merci. L’inquinamento atmosferico provocava mutamenti climatici sempre più vistosi, l’esaurimento dei pozzi petroliferi più comodi spingeva a estrarre petrolio e gas con processi più nocivi per l’ambiente.

Così si è arrivati alla conferenza della settimana scorsa dedicata allo “Sviluppo sostenibile”. Già dal titolo, niente più uomo, niente più ambiente. Infatti tutto il dibattito era centrato sui soldi: i mutamenti ambientali costano dei soldi e possono essere attenuati con grandi investimenti destinati a chi li sa affrontare, cioè le imprese private, quelle che sono in grado di praticare una “economia verde”: il nuovo idolo che sarebbe capace anche di risolvere (almeno un poco), il problema della povertà e della fame che affliggono oltre un miliardo di persone nel mondo. Le nuove tecnologie, su cui in tanti avevamo riposto tanta fiducia, come l’uso delle fonti energetiche solari e del vento, sono ora desiderabili a condizione che siano gestite dalle grandi industrie multinazionali che costruiscono pannelli fotovoltaici e motori eolici e vendono elettricità, il tutto sovvenzionato con massicci interventi di soldi pubblici. Ma al fianco dei lobbysti a favore dell’industria delle energie rinnovabili ecco quelli delle industrie dei combustibili fossili che vogliono anche loro sovvenzioni per il carbone e il petrolio.

La conferenza di Rio+20 si è così conclusa con una lunga dichiarazione delle cose che si dovrebbero fare per far crescere gli affari, senza nessun impegno preciso sulla limitazione dei guasti ambientali. E’ anzi sorta un nuova parola d’ordine: resilienza, cioè aggiustamento dei guasti. Altri soldi ai privati per risarcire i paesi che saranno allagati dall’innalzamento del livello degli oceani, o dall’avanzata dei deserti, o dal moltiplicarsi delle tempeste tropicali, al posto di azioni per prevenire questi guasti attraverso il cambiamento delle scelte produttive e dei consumi.

Alta si è levata, anche se inascoltata, la voce “dei popoli”, “dei poveri”, riuniti in conferenze e incontri, paralleli a quelli ufficiali, i quali chiedevano nuovi più giusti rapporti economici, e genuine azioni per fermare il degrado ecologico, la privatizzazione dei beni, a cominciare dall’acqua e dalle sementi e dalla stessa terra, che sono di proprietà delle popolazioni locali povere, ma dai cui vantaggi tali popolazioni sono ancora, anzi sempre più, escluse. Eppure solo da una vera giustizia può venire la pace fra i popoli e col creato; quanto lontane questa parole del Messaggio della Pace di Giovanni Paolo II nel 1990 !.




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