martedì 29 gennaio 2013

L'insostenibilità della sostenibilità

Villaggio Globale (Bari), 15, (60), dicembre 2012

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Gli anni sessanta del Novecento sono stati anni di grandi rivoluzioni: i paesi liberatisi dal colonialismo si sono messi in testa di rivendicare prezzi più equi per le loro risorse naturali --- rame, gomma, cobalto, fibre tessili, uranio, petrolio --- che fino allora erano stati sfruttati dai loro colonizzatori; in tanti nel mondo avevano imparato a osservare la Terra, fotografata dai satelliti artificiali, e quella sfera nello spazio era apparsa come l’unica casa per gli esseri umani, grande ma limitata nei suoi continenti e nelle sue ricchezze; alcuni economisti avevano ironizzato sul significato del PIL mostrando che questo indicatore ufficiale della ricchezza e del benessere non è capace di tenere conto dei costi e dei dolori provocati da sempre più frequenti inquinamenti o alluvioni; alcuni sociologi avevano mostrato tutti i limiti della società dei consumi; alcuni biologi aveva denunciato che la popolazione terrestre stava crescendo troppo rapidamente rispetto alla disponibilità di cibo, di spazio, di acqua. La terribile parola, “limite”, aveva fatto la sua comparsa nel vocabolario, con grande spavento per gli economisti ufficiali, per capitalisti, imprenditori e uomini politici.

Si poteva capire che gli esponenti di una gioventù ribelle nei campus universitari cavalcassero questa insoddisfazione, che gli operai nelle fabbriche fossero insoddisfatti delle condizioni e dei pericoli del lavoro. Ma che un club proprio di intellettuali borghesi e di imprenditori e governanti si fosse messo in testa di ordinare un libro che, nel 1972, spiegava che sarebbe stato necessario porre dei “Limiti alla crescita” della popolazione, delle merci e della produzione --- questo passava tutti i segni.

Tanto più che la velenosa idea fece una qualche presa nel mondo; anche nei paesi industriali, nel mondo politico, non solo nei giovani ribelli. Qualche governante considerò con attenzione la analisi dei “Limiti alla crescita”, circolò il termine austerità, in Italia rapidamente soffocato; perfino i dirigenti sovietici parlarono di “uso parsimonioso delle risorse”, per non parlare del mondo cattolico in cui circolavano inviti a minori sprechi.

Bisognava provvedere, e i rappresentanti del potere economico crearono una Commissione che elaborò un rapporto, tradotto in italiano col titolo: “Il futuro di noi tutti”, che ha lanciato su larga scala la moda della sostenibilità, definendo "ufficialmente" sostenibile lo sviluppo che consente alla nostra generazione di usare le risorse del pianeta lasciando, alle generazioni future, un patrimonio di risorse che assicuri anche a loro un uguale sviluppo. Per vostra tranquillità ve lo trascrivo nell’originale inglese: "development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs".

Ci sono senza dubbio problemi ambientali, di inquinamento, di impoverimento delle riserve naturali, ma la società capitalistica è capace di assicurare lo stesso lo sviluppo economico, pur con alcune correzioni, uno sviluppo duraturo, sostenibile, appunto.

Purtroppo c'è una insanabile contraddizione in termini in tale definizione: se usiamo oggi una parte delle risorse terrestri non rinnovabili, questa parte non sarà più disponibile per le generazioni future, per coloro che nasceranno fra venti o quarant'anni. Una espressione popolare americana spiega che non si può mangiare la torta e averla ancora. “Can’t eat a pie and have it”.

Inoltre c’è confusione fra sviluppo e crescita dei beni materiali, quelli appunto che si possono ottenere soltanto usando e modificando le risorse fisiche della natura. Lo “sviluppo” consiste nel diritto di avere una vita dignitosa, per le donne e per gli uomini, di disporre di abitazioni, di cibo e di acqua decenti, di avere accesso all’informazione, alla conoscenza, al lavoro e di godere il diritto della libertà.

Nella definizione “ufficiale” di sviluppo sostenibile si fa riferimento alla crescita dell’uso delle risorse naturali che sono, lo spiega bene l'ecologia, limitate fisicamente. Se si traggono petrolio o gas naturale dai pozzi, carbone dalle miniere, inevitabilmente se ne lascia di meno alle generazioni future; se si aumenta la produzione di cereali o di soia si lascia, inevitabilmente, un terreno impoverito di sostanze nutritive e esposto all'erosione; se si usano i fiumi come ricettacolo dei rifiuti e delle scorie delle attività umane non si può sperare e pretendere di avere acqua potabile a valle.

La nostra società di mercato stabilisce che è bene, anzi obbligatorio, fare aumentare il prodotto interno lordo, cioè la quantità di denaro che ogni anno circola attraverso una economia. Ma tale indicatore aumenta soltanto se aumenta la produzione e l'uso e il consumo di automobili, di cereali, di benzina, di cemento, di scarpe, di telefoni e computer, di elettricità, carta, eccetera, tutte cose che possono essere ottenute soltanto estraendo dalle miniere o dai campi o dalle foreste risorse naturali che non saranno più disponibili alle generazioni future; tutte cose che inevitabilmente generano scorie che peggiorano la qualità delle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare) che lasciamo alle generazioni future.

Per farla breve le attuali regole economiche fanno sì che l'attuale società --- italiana, europea, mondiale --- sia intrinsecamente insostenibile. Ci stiamo prendendo in giro, con le grandi attestazioni di amore per lo sviluppo sostenibile, per la sostenibilità, in un mondo in cui le regole di base dei rapporti umani e economici sono insostenibili. E la situazione è tanto più grave in quanto le stesse regole economiche sono state assimilate dai paesi ex-socialisti e vengono puntigliosamente esportate nei paesi emergenti come Cina, India, Brasile e anche in quelli poveri del mondo.

Eppure la speranza di poster continuare sulla gloriosa strada della crescita merceologica, si è diffusa non solo nella borghesia imprenditoriale, ma anche nel mondo ambientalista, quello da cui era nata la grande contestazione degli anni sessanta. E così ci sono stati volonterosi sforzi per attuare un ambientalismo scientifico, per proporre soluzioni tecnico-scientifiche coerenti col disegno di sviluppo sostenibile pur nella doverosa possibilità di produrre e consumare e disporre di più beni materiali.

Se le abitazioni sono strutture che divorano energia e cemento e acqua è possibile immaginare nuovi materiali da costruzione, tecniche di isolamento termico, l’inserimento di pannelli solari sui tetti, pensare e proporre città e case sostenibili.

E’ vero che i consumi di energia sotto forma di prodotti petroliferi, di carbone e gas naturale immettono nell’atmosfera crescenti quantità di gas, come l’anidride carbonica, che modificano la composizione chimica dell’atmosfera e provocano mutamenti climatici disastrosi; è vero che sarebbe ragionevole diminuire le emissioni dei gas serra, consumando di meno energia, ma di energia c’è bisogno ed ecco le proposte sostenibili di filtrare i gas dai camini delle fabbriche e delle centrali, di immettere tali gas nel sottosuolo, di sostituire le fonti fossili con quelle rinnovabili, ed ecco un proliferare di pale eoliche, di pannelli fotovoltaici, di centrali alimentate con la biomassa, magari con oli importati dai paesi tropicali, tutto grazie a provvidenziali finanziamenti pubblici, ed ecco nuove proficue fonti di affari e di crescita finanziaria, pur di far correre automobili sostenibili in congestionate città sostenibili, con grattacieli sostenibili sempre più svettanti nel cielo.

E’ vero che molte merci inquinano durante la produzione e durante il “consumo”, è vero che, a conti fatti, non si consuma niente, che le attività umane non fanno altro che trasformare le merci in rifiuti gassosi, liquidi e solidi --- quattro chili di rifiuti per ogni chilo di merce prodotta e usata --- ma anche qui le soluzioni sostenibili non mancano. E’ possibile trarre elettricità e affari dal trattamento e dal riciclo dei rifiuti, è possibile utilizzare materie alternative biodegradabili tratte dalla biomassa vegetale in alternativa a quelle derivate dal petrolio.

Anche se, col procedere verso improbabili soluzioni sostenibili si è poi visto che si usciva da una trappola per cascare in un’altra; la produzione su larga scala di carburanti sostenibili, alternativi alla benzina, dal mais o dallo zucchero sconvolgeva l’agricoltura dei paesi poveri; l’uso di grassi vegetali per la produzione di carburanti diesel provocava la distruzione delle foreste tropicali per fare spazio a piantagioni di palma. Al punto da riconoscere che si toglieva il cibo di bocca ai paesi poveri per far correre i SUV dei parsi industriali.

Pochi numeri aiutano a mostrare la insostenibilità della sostenibilità. La produzione primaria netta --- cioè il peso (secco) di materiali vegetali formati attraverso la fotosintesi (detratte le perdite per la respirazione vegetale) --- è, sulle terre emerse, di circa 100 miliardi di tonnellate all'anno.

Di questa ricchezza in gran parte rinnovabile, rigenerata ogni anno dai cicli della natura, per l'alimentazione umana e degli animali da allevamento e come legno e altre materie vengono prelevati circa 6 miliardi di tonnellate all’anno. Il peso del carbone, del petrolio e del gas naturale portati via ogni anno dalle viscere della Terra ammonta a circa 12 miliardi di tonnellate, a cui vanno aggiunti circa 30 miliardi di tonnellate all’anno di minerali, materiali da costruzione, tutti non rinnovabili. La trasformazione di tutti i materiali, tratti dalla natura, da parte dei sette miliardi di esseri umani esistenti nel 2012, e che aumentano in ragione di circa 70 milioni di persone all’anno, genera ogni anno circa 35 miliardi di tonnellate di gas anidride carbonica, oltre a miliardi di tonnellate di altri gas che finiscono nell’atmosfera alterandone la composizione chimica e accelerando i mutamenti climatici; e genera miliardi di tonnellate di sostanze organiche e inorganiche che finiscono nelle acque prelevate dai corpi naturali e restituite inquinate alla natura in ragione, nel mondo, di circa 4000 miliardi di tonnellate all’anno; e genera scorie e residui solidi che finiscono sul suolo. Una parte infine, soprattutto di minerali e metalli e rocce, resta immobilizzata nella tecnosfera --- nell’universo delle cose fabbricate, edifici, macchinari, oggetti a vita media e lunga --- che si dilata continuamente e irreversibilmente.

In un piccolo paese come l’Italia la sola massa dei rifiuti solidi ammonta a 0,2 miliardi di tonnellate all’anno, quella dei gas di rifiuto ammonta a oltre mezzo miliardo di tonnellate all’anno, la massa di acqua che entra nelle fabbriche, nelle case e nei campi e ne esce contaminata da rifiuti e agenti vari ammonta a circa 60 miliardi di tonnellate all’anno.

Volenti o nolenti, comunque di cose materiali gli esseri umani hanno bisogno, in quantità crescente anche per l’inarrestabile aumento della popolazione mondiale. Tutto quello che si può fare per attenuare la insostenibilità dovuta all’impoverimento e al peggioramento della qualità ecologica delle risorse naturali, è cominciare a chiedersi: chi ha bisogno di che cosa ?

Davanti a circa 2000 milioni di abitanti della Terra che sono sazi di beni e di merci, talvolta obesi di sprechi, ci sono sulla Terra circa 3000 milioni di persone che, nei paesi di nuova industrializzazione, stanno correndo a tutta velocità nell’aumento insostenibile della produzione e del consumo di energia, di metalli, di cemento, di automobili, di apparecchiature elettroniche, e poi ci sono altri 2000 milioni di persone povere e metà di queste non dispongono di una quantità sufficiente di cibo, di acqua di buona qualità, sono povere di libertà e dignità, beni che richiedono anch’essi beni materiali, perché non si può essere liberi e non si può vivere una vita dignitosa se mancano abitazioni decenti, letti di ospedale, banchi di scuola. Una mancanza che è giusta fonte di rivendicazioni, di violenza, di pressioni migratorie verso paesi opulenti che non vogliono spartire la loro opulenza. Una mancanza che può essere sanata soltanto con la terribile e improponibile proposta di imporre ai ricchi di consumare di meno per lasciare ai poveri una maggiore frazione di beni materiali che gli consenta di avere una vita minimamente decente. Qualche considerazione sul produrre che cosa per chi in: http://www.scribd.com/doc/93089744/unsustainibility.

Resta la domanda: quanto a lungo può durare una società insostenibile ? Da quando gli esseri umani hanno abbandonato la loro condizione di animali cacciatori e raccoglitori, in relativo equilibrio con i cicli rinnovabili e sostenibili delle risorse naturali, è cominciato un inarrestabile cammino verso l’aumento della popolazione, l’aumento dei desideri di questi nuovi animali speciali, gli umani, e, di conseguenza, il crescente impoverimento delle riserve di “beni” naturali e il peggioramento delle condizioni, della qualità, dei corpi naturali. L’insostenibilità è la punizione di cui parla la Bibbia per coloro che hanno osato mangiare il frutto della conoscenza.

E’ del tutto vano chiacchierare su quanto a lungo potrà durare la storia dell’uomo sulla Terra, su quanto potranno durare le riserve di petrolio o di minerali, su quanti gradi aumenterà la temperatura del pianeta o su quanti metri si solleveranno gli oceani, sul massimo numero di esseri umani che la Terra può sopportare. Nove miliardi di persone a metà del XXI secolo ? dieci o undici alla fine del XXI secolo ? Come vivranno e dove saranno questi in futuro ? Finirà un giorno l’avventura degli esseri umani su questo pianeta ? Domande futili perché anche dopo la scomparsa degli esseri umani, dei nostri arroganti grattacieli e delle nostre fabbriche e centrali, e anche quando le scorie radioattive che lasciamo alle generazioni future si saranno stancate di liberare radioattività, continuerà la vita, quella si, sostenibile, a differenza delle cose umane, fino a quando il Sole anche lui, non si sarà stancato di gettare calore nello spazio. Per ora, nel brevissimo (rispetto ai tempi della natura) spazio di una o dieci o cento generazione, accontentiamoci di ammirare il mondo che ci circonda e, se possibile di rispettarne le meraviglie.









mercoledì 16 gennaio 2013

Carta e informatica

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 15 gennaio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Uno degli imperativi dell’ambientalismo è quello di coniugare l’ecologia con l’economia. Una iniziativa in questo senso è rappresentata dalla proposta di sostituire le domande di iscrizione alle scuole e i documenti relativi alle carriere scolastiche e le stesse pagelle degli studenti, finora su carta, con moduli da compilare sul computer e da rendere disponibili in forma telematica. Gli scopi sono vari: uno ecologico, la possibilità di risparmiare carta e quindi di evitare il taglio di alberi e tutti i rifiuti e inquinamenti associati sia alla produzione della carta, sia allo smaltimento delle carte usate.

martedì 8 gennaio 2013

Anno nuovo, elezioni e ambiente

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 8 gennaio 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Anno nuovo, nuovo governo nazionale, nuovi governi locali, campagne elettorali in pieno svolgimento. In tutti i programmi elettorali c’è sempre, talvolta affrettato, un riferimento all’ambiente, all’economia verde, al territorio, alla sostenibilità, ma credo che gli elettori avrebbero motivo di chiedere a chi eleggeranno in Parlamento o alla Regione o al Comune, che cosa intende fare per i veri problemi ambientali del suo territorio. Proverò a citarne alcuni in un elenco molto parziale.

Comincerò con la difesa del suolo: per evitare future frane e alluvioni sarebbe bene che i candidati mostrassero di essere consapevoli che occorre avviare delle opere di rimboschimento e di aumento della protezione vegetale dei terreni e di pulizia del greto di torrenti, fossi, fiumi, una specie di polizia e igiene idraulica, in modo da identificare dove si trovano degli ostacoli e freni al libero moto delle acque quando aumentano improvvisamente le piogge. Che tale aumento sia certo, nei prossimi mesi e probabilmente per tutta la nostra vita futura, è garantito dagli irreversibili mutamenti climatici dovuti alla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera.

A questo proposito credo sia doveroso chiedere ai candidati quali indirizzi daranno ai governi, nazionale e locali per quanto di loro competenza, per rallentare le immissioni di gas serra (anidride carbonica e metano, soprattutto) nell’atmosfera. Non si tratta di azioni di competenza soltanto delle Nazioni Unite, perché ciascun paese è tenuto a fare la sua parte con azioni sulla regolazione del consumo di carbone, petrolio, gas naturale, sulle emissioni di metano dalla putrefazione dei rifiuti nelle discariche e negli allevamenti animali.

Un secondo problema, strettamente legato alla difesa del suolo, riguarda la guerra alla sete: l’acqua per le città, le industrie, i campi, circa 40 miliardi di metri cubi all’anno, proviene dai pozzi, dai fiumi, dai bacini continuamente riforniti dai 150 miliardi di metri cubi di acqua che cade ogni anno come pioggia e neve sul territorio nazionale. In questi ultimi anni proprio i mutamenti climatici hanno provocato settimane e mesi di scarsità e mancanza di acqua, con maggiori danni nel Mezzogiorno e nelle isole.

E poi di quale acqua parliamo ? Non appena si misurano i caratteri chimici stabiliti delle norme europee ci si accorge, per esempio, che la concentrazione di arsenico nelle acque di alcune zone dell’Italia centrale è così elevata da costringere i sindaci a dichiarare non potabile, secondo la legge, l’acqua dei loro acquedotti, per la maggior gloria dei venditori di acqua in bottiglia il cui uso raggiunge già livelli insostenibili, oltre 10 milioni di metri cubi all’anno in miliardi di bottiglie di plastica o vetro. Legato alla circolazione dell’acqua nel territorio è anche il problema delle fognature e dei depuratori; è il Parlamento che stabilisce quanti soldi potranno essere spesi, ma sono le amministrazioni locali che dovranno vigilare se le fogne sono efficienti, se i depuratori funzionano davvero o se ci si accontenta di una pulitina prima di mettere le acque sporche nel mare dove poi fioriranno le alghe d’estate e compariranno meduse e batteri, con piagnistei per la crisi del turismo.

Altro urgente problema che i nuovi legislatori e amministratori dovranno affrontare riguarda lo smaltimento dei rifiuti, affidato a società spesso private il cui fine è il profitto aziendale, piuttosto che una ragionevole raccolta differenziata, un utile riciclo dei rifiuti riciclabili, un deposito in discariche più o meno ben fatte, un trattamento che assicuri la riduzione dell’ingombrante volume dei rifiuti. Si tratta di decidere ogni anno che cosa fare di 35 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, cento milioni di tonnellate di rifiuti agricoli, industriali e di residui di demolizioni di edifici, fra cui alcuni milioni di tonnellate del sempre presente amianto che non muore mai e si infila dovunque continuando a diffondere malattie e tumori.

I nuovi amministratori dovranno decidere le azioni per la protezione delle spiagge contro l’erosione, altro problema legato alla sorte del turismo futuro, come diminuire l’inquinamento industriale, come bonificare le discariche di scorie tossiche, vecchie ormai di anni o decenni, quali industrie incentivare, al di la delle etichette “verdi” e “bio”, in modo da assicurare lavoro e salute. Non si tratta di eleggere ecologisti o presunti tali, ma di augurarsi che nelle cariche elettive vadano amministratori capaci di documentarsi su qualche buon libro prima di votare su un inceneritore o un rigassificatore.

Molti candidati parlano di nuova moralità, di lotta alla criminalità; ebbene la violenza alla natura e all’ambiente è la prima vittima della criminalità, da quella apparentemente modesta dell’abusivismo edilizio, alla corruzione nelle costruzioni di depuratori e canalizzazioni e strade. Tutte le azioni di difesa dell’ambiente a cui ho fatto un breve cenno richiedono soldi e il vero collaudo delle promesse elettorali sta proprio nel controllo di come saranno affidati e spesi questi soldi







sabato 5 gennaio 2013

SM 1762 -- Ecologia: progressista o reazionaria ? -- 1994

CNS, 4, (11), 141-148 (giugno 1994)

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La contestazione ecologica è nata come protesta contro l'uso distorto e violento della tecnica e del territorio. Ci sono esempi di tale protesta già nel sei-settecento: allora si trattava per lo più della protesta di singoli individui che venivano danneggiati dai fumi dei forni metallurgici, dalle fabbriche di prodotti chimici, delle attività minerarie. In genere la protesta partiva da chi aveva qualcosa da perdere: piccoli agricoltori, piccoli proprietari, membri di una classe "media" che sarebbe poi diventata classe borghese. Il proletariato, avendo poco da perdere, anzi in un certo senso qualcosa da guadagnare, dalle fabbriche e dalle miniere, aveva altre cose a cui pensare: l'occupazione, la sopravvivenza.